Politica 12:26 | 08/03/2025 - Rimini

Potere al Popolo: Non è un paese per donne. Per questo oggi scioperiamo

Poche ore fa il Consiglio dei Ministri ha approvato un ddl che introduce nel codice penale il reato di femminicidio. La proposta ha come perno l'idea che inasprimento delle pene significhi più giustizia e sicurezza. Addirittura prevenzione dei reati. All'"asimmetria di potere tra uomo e donna", di cui ha parlato Roccella in conferenza stampa, si risponde sostanzialmente con più carcere, più controllo.

Ma il patriarcato non è un qualcosa che si risolve a valle, a violenza già avvenuta. Esso è molto più pervasivo, innerva la struttura profonda della nostra società. Se vogliamo liberarci dobbiamo farlo eliminando l'oppressione alla radice.

Non vogliamo più manette e sbarre.

Vogliamo CULTURA, per crescere insieme come comunità, costruire relazioni più belle e libere e minare alla radice le basi dell'oppressione.

Vogliamo SOLDI per uscire materialmente dai contesti di pericolo o di non libertà, per il potenziamento dei CAV, lavoro degno, reddito per sostenere la nostra autonomia.

Il punitivismo della destra di Governo non risolverà la questione della violenza.

Partiamo da un dato: in Italia solo il 52,5% delle donne svolge un lavoro retribuito. Una donna su due quindi non può avere un'esistenza indipendente e deve appoggiarsi ad altri, spesso al partner.

Sul divario occupazionale incidono diversi fattori, tra i quali la gestione dei figli. In Italia 2 bambini su 3 non trovano spazio in asili nido. Nel divario geografico che continua ad attanagliare l’Italia e rende ancora attuale la “questione meridionale”, il Sud sta messo peggio: 17 posti disponibili ogni 100 bambini, di cui solo 6 nel pubblico. E così la loro “cura” ricade sulla famiglia. Cioè sulla donna. Anche perché il congedo di paternità in Italia dura solo 10 giorni, contro le 16 settimane della Spagna. Per contro, il congedo di “maternità” dura 5 mesi.

E che dire dei congedi “parentali”, in astratto rivolti a padri e madri? Tra 2015 e 2019, l’82% di chi ne ha usufruito è donna. I figli, insomma, sono affare delle madri.

Se passiamo poi a quel 50% di donne che lavora ricevendo una retribuzione, la situazione è tutt’altro che rosea. La paga è assai più bassa di quella degli uomini. Il “gender pay gap”, cioè la differenza retributiva tra uomini e donne, secondo l’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza e Sicurezza) nel 2024 era pari a quasi 8mila euro l’anno, oltre il 20% in meno rispetto agli uomini.

Un divario che INPS dice “significativamente correlato” alla maggiore presenza di part-time tra le lavoratrici. Ma che resiste anche a parità di impiego. E in tutta la Unione Europea. Secondo l’ISTAT (Istituto di Statistica) nelle professioni con i salari più bassi (lavori impiegatizi, servizi e commercio) il divario è dell’8% e sale fino al 23% quando osserviamo incarichi manageriali.

L’assenza di autonomia economica rende assai più complicato uscire da situazioni di violenza fisica subita tra le mura domestiche. Senza soldi, senza lavoro, senza una casa, dove si può mai andare?

Lo Stato dovrebbe provvedere, eppure, al di là della retorica e delle lacrime che si spendono a ogni nuovo femminicidio, non solo non si fa nulla, ma si va nella direzione sbagliata.

I CAV (Centri Anti Violenza) presenti sul territorio italiano sono solo 404, cioè 0,07 ogni 10mila abitanti. Un numero che viola una legge dello Stato – la 119 del 15 ottobre 2012 – che impegna l’Italia a rispettare il rapporto di un centro antiviolenza ogni 10mila abitanti.

Un obiettivo ben lontano dall’essere raggiunto: i CAV dovrebbero essere 20 volte quelli attuali per centrarlo.

Se allarghiamo lo sguardo al complesso delle misure per prevenire la violenza di genere, la situazione non migliora affatto. Anzi. Il Governo Meloni ha tagliato del 70% le risorse per la prevenzione della violenza contro le donne: da 17 milioni di euro a 5 milioni di euro l’anno. Ma c’è di più: gran parte di questi (scarsi) fondi va a misure che si concentrano su punizione e repressione. Misure che cioè intervengono a violenza già avvenuta.

Il dibattito politico troppo spesso ruota sui femminicidi come questione meramente culturale. Suggerendo l’idea che un po’ di educazione affettiva a scuola e una migliore educazione familiare a casa permetterebbero di superare il problema. Non è un caso che vengano puntualmente espunte le fondamenta strutturali su cui riposa il patriarcato.

Una narrazione che si rompe solo grazie all’arrivo in scena di centinaia di migliaia di donne e di persone LGTQIA+ che impongono una visione diversa. Che impongono di andare a fondo. Nella cultura e nel linguaggio, certo. Nell’impianto normativo. Ma che nella sua componente più radicale – intesa proprio nel senso di chi va nel profondo, alle radici – rivendica un cambiamento di sistema per potersi finalmente disfare del patriarcato.

Salario minimo di almeno 10 euro l'ora agganciato all'inflazione;

meno soldi per la guerra, più soldi per il welfare (asili nido, supporto per persone che necessitano di specifiche cure: anziane, malate, con disabilità, etc.) e tempo di vita per tutte e tutti;

1 consultorio ogni 20mila abitanti (oggi sono 1 ogni 70mila);

1 CAV ogni 10mila abitanti; educazione sessuo-affettiva nelle scuole.